Ero nel mio studio dentistico e la paziente, appena liberata dai cavetti della T.E.N.S., mi pose un’impietosa domanda: “mi scusi dottore ma perché gli altri dentisti non fanno quello che ha fatto lei?” Sul momento non seppi risponderle e confesso che una risposta mi manca tuttora. Perché oggi uso la T.E.N.S.? Perché oggi, quando il paziente si siede sulla poltrona, non posso fare a meno di esaminare con occhio sicuramente più consapevole il viso, la lingua (e come essa si muove), gli occhi, le labbra, insomma il paziente nella sua totalità? La risposta alla prima domanda sta nell’incontro con l’Associazione I.A.P.N.O.R., un eterogeneo ed esteso gruppo di professionisti aperti ad ogni confronto e dibattito culturale purché improntato nel rispetto e nella conoscenza della funzione, della neurofisiologia e dell’anatomia. Avevo fino ad allora cercato invano risposte ai miei tanti dubbi in materia di Gnatologia e Protesica sia leggendo “sacri testi” sia frequentando “corsi” tenuti da “specialisti” della materia. La seconda conseguentemente deriva dall’essere stato indotto a considerare il soggetto paziente nella sua globalità anatomo-funzionale pur esplicando il mio lavoro da odontoiatra. Certamente spesso mi viene da pensare: “Ma i canali istituzionali deputati alla formazione e all’informazione dove sono? Perché qualcuno fuori dall’ufficialità accademica affronta e dà risposte ai miei dubbi e alle mie domande in maniera comprensibile, ripetibile e documentabile nel rispetto di interazione di organo ed apparato?”
E allora perché i colleghi ai quali faceva riferimento la mia paziente non si pongono nessun dubbio sul loro operato in considerazione del fatto che spesso, tutto l’iter diagnostico e terapeutico è lapalissianamente meccanicistico e antifisiologico? Eppure, verosimilmente, abbiamo compiuto gli stessi studi! Il compito dell’aggiornamento professionale, di fornire cioè al professionista quel ventaglio di conoscenze attraverso le quali egli possa scegliere in base al proprio bagaglio culturale, discernimento, giudizio, capacità, nel rispetto del “soggetto paziente”, spetta alle Istituzioni o rimane affidato all’iniziativa del singolo il guardarsi intorno, cercare, provare?
Anche questa considerazione, ahimé, è senza risposta; resta tuttavia il fatto a tutti noto che a decidere quali conoscenze debbano essere fornite al professionista nel periodo della sua formazione sono le Università che diffondono solo il sapere “universalmente” accettato che diviene in tal modo ufficiale; se è così, allora mi chiedo: che valore si deve attribuire al sapere che non ha il timbro dell’ufficialità e come dovrà porsi il singolo di fronte ad una prassi di inconfutabile efficacia ma contraria o ignorata dall’ufficialità stessa considerando anche gli aspetti medico-legali che non sono niente affatto secondari? D’altronde tutti sanno anche che la storia della Medicina è stata scritta fino ai nostri giorni correggendo e confutando e talvolta negando le certezze precedenti. Con quali meccanismi e quali criteri il frutto delle ricerche che si fanno nei vari ambienti culturali arrivano ad assurgere alla dignità della “ufficialità”?
Perché ancora oggi resistono delle verità tramandate, prive di serie ed idonee fondamenta, elevate a valore quasi di dogma a dispetto di eclatanti dimostrazioni di infondatezza? Ci sono voluti centinaia di anni perché i medici abbandonassero la pratica, durata fino al secolo scorso, di svuotare vene e intestini ai loro pazienti, nonostante già i risultati clinici ne negassero l’efficacia (Montagnier ecc.). Desidererei profondamente che l’“ufficialità” sapesse riconoscere in tempi più rapidi quelli che io considero ormai i “moderni salassi e clisteri” che vengono propinati, – ahimé!, anzi ahi loro! – ai nostri pazienti.
Salvatore Tucci